Fuori dal tempio, americana!
Ogura, periferia meridionale di Kyoto. Ci arrivo per la prima volta nel 1997, probabilmente unica occidentale pervenuta dell’anno, dato che nel tratto dalla stazione a casa Sugahara e viceversa tutti si giravano a guardarmi come si farebbe con un extraterrestre. Ed effettivamente un po’ aliena mi sentivo: non poteva far parte del mondo da me conosciuto un luogo in cui i treni rallentavano per arrivare puntuali!
Ma procediamo con ordine. Non ci volevo andare io in Giappone quella volta, no: nonostante tutta la mia passione per quel paese, non mi sentivo pronta. Anche se gli esami di lingua erano andati bene io, in realtà, con un giapponese non ci avevo mai parlato. Mi feci venire anche la febbre per intenerire mio padre che invece m’imbottì di antibiotici, mi mise il Japan Rail Pass in bocca e mi portò a forza sull’aereo, preconizzando: “Adesso ti posso mandare, più in là diventerà
difficile”. Ovviamente, non gli sarò mai grata abbastanza. Per darmi un tono, in aereo scelsi il pasto giapponese e feci la mia traumatica conoscenza con il wasabi, che avrei imparato ad amare moooolto più tardi…
Arrivata a destinazione inizia la mia vita con papà Masahiko e mamma Saeko. All’inizio riesco a proferire solo formule di saluto e ringraziamento. Cercano sin da subito di scuotermi e, come primo sprone, mi buttano nella mischia di un undoukai, a gareggiare su un campo di terra battuta bianca con bambini delle elementari e insegnanti vari, e qui scopro che papà Masahiko è uno stimato ex insegnante in pensione, di quelli che vengono chiamati ad ogni occasione a tenere discorsi. Ma me lo potevi dire che non mi sarei vestita di nero e mi sarei messa scarpe comode! O forse me l’hai detto e non ho capito?!?!? Penso di aver ricevuto anche un premio. Di consolazione.
Dopo pochi giorni dal mio arrivo, inizia la scuola. Sveglia alle 6, colazione, corsa in stazione, assalto all’autobus. In classe sono quasi tutti cinesi e coreani. L’unica altra italiana assomiglia a Barbie, si mette subito in competizione con me, alla faccia di ogni spirito di fratellanza patriottica. Trovo asilo tra Cina e Corea del Sud.
Di nuovo autobus e treno. Riesco a tornare a casa da sola e papà Masahiko capisce che sono una ragazza in gamba. Resta il blocco psicologico della lingua da sciogliere. Entra in scena mamma Saeko. Una sera al ritorno da scuola ci troviamo a tu per tu. “Raccontami la tua giornata” mi dice. Cerco disperatamente le parole, annaspo tra potenziali e passivi e forme sospensive. “Vuoi un tè?” Sto sudando ma accetto. Ed eccolo il rimedio, tutt’altro che giapponese: una bottiglia di Johnny Walker. “Ireru?” Ma si, va là! Che discorsata ci siamo fatte io e la mamma! “Adesso sì che parli bene. Questo (la bottiglia di Johnny Walker) te lo lascio qui. Servitene quando vuoi”. La bottiglia di whiskey è rimasta sul tavolo, alla mia destra per tutta la durata della mia permanenza in casa Sugahara…
Dopo la scuola e nel week-end si andava per templi e santuari, attraverso un autunno d’oro e di fuoco. Mentre io mi beavo di ogni particolare architettonico e naturale, papà Masahiko si divertiva a cercar di far rompere il voto del silenzio al bonzo di turno che estirpava pazientemente a mano le erbacce cresciute sul vialetto di pietra. Poi una sera entro senza essere accompagnata da Otousan in un negozietto sperduto e solitario vicino al Rozan-ji: volevo acquistare qualcosa che mi ricordasse il tempio dedicato alla mia adorata Murasaki Shikibu.
L’accoglienza non è delle migliori. Dietro il banco un vecchietto quasi centenario con barba lunga e capelli alla Inuyasha mi fulmina con lo sguardo e man mano che mi avvicino incomincia a mormorare qualcosa di incomprensibile. I toni si alzano inaspettatamente e capisco qualcosa tipo:”qui gli americani non devono entrare”. Il concetto è chiaro: nonnetto non ama l’Occidente. Non mi va di farlo agitare ulteriormente e me ne vado. Non dico niente a papà Masahiko ma ho ancora la fastidiosa sensazione di aver pagato, seppur un piccolissimo prezzo, per qualcosa che non ho commesso.
Alessandra Piervincenzi